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Un calcio
all’isolamento
Inseguire un pallone e riscoprire il gioco tra le vie di Shatila
SHATILA
LIBANO
Visto dall’alto, il campo palestinese di Shatila ha una forma che ricorda vagamente un quadrato, la più regolare tra le figure insieme al cerchio. Eppure, ribaltando la prospettiva e guardando questa forma da vicino, dall’interno, l’ordine apparente lascia il posto al caos.
Questo disordine è anche una rappresentazione delle storie di chi abita in questo e negli altri campi palestinesi in territorio libanese: dopo 68 anni di esilio, infatti, i rifugiati palestinesi in Libano secondo la legge sono ancora stranieri, e per questo privati del diritto di lavorare – sono ben 72 le professioni alle quali un palestinese non può accedere –, votare, persino di costruire un tetto per la propria casa. Insomma, privati dei diritti sociali e civili.
Per chi è cresciuto nell’Europa occidentale, pensare a un campo profughi significa immaginare una distesa di tende in un territorio disabitato, o un insieme di baracche di lamiera ai margini di una città. A Beirut e nelle altre città costiere del Libano non è così, e il campo di Shatila si compenetra con Sabra, il quartiere più povero della città, popolato in maggioranza da siriani, curdi, iracheni, bengalesi e altri lavoratori stranieri con le loro famiglie. Insieme al quartiere etiope di Ouzai, più a sud-ovest e composto dalle stesse vie sudicie e dalle stesse case diroccate, questi luoghi ci raccontano che la disperazione non si trova soltanto nei campi, ma da questi sembra aver mutuato un modello, indubbiamente poco virtuoso, fatto di segregazione e di disoccupazione. Si stima, con un’approssimazione che è inevitabile per luoghi nei quali è difficile anche soltanto capire a quanto ammonti la popolazione, che il tasso di disoccupazione nei campi profughi palestinesi sia del 40%, mentre quella giovanile sia doppia.
Camminando per gli stretti vicoli di Shatila è inevitabile pensare che il nome questo campo, insieme a quello del quartiere di Sabra, sia associato sempre e comunque al massacro di centinaia di persone avvenuto tra il 16 e il 18 settembre 1982, come se i fantasmi di quell’evento non se ne fossero mai andati.
In poco più di quaranta ore, le Falangi libanesi massacrarono sistematicamente i palestinesi che vivevano nel campo, bloccati dentro una prigione a cielo aperto da un cordone militare israeliano. La Croce Rossa stima che almeno 1.000 persone siano state uccise in quei due giorni, mentre secondo i palestinesi sono quasi il triplo le persone che mancano all’appello.
Il massacro di Sabra e Shatila, entrato nella memoria collettiva come il dramma di un intero popolo, colpì anche l’immaginario di persone che, anche in un’Europa che viveva gli ultimi anni di contrapposizione tra Occidente e blocco sovietico, decisero di provare a comprenderlo più a fondo. Tra questi anche Renzo Ulivieri, all’epoca allenatore della squadra di calcio della Sampdoria, appena promossa in serie A, e che in molti ricordano negli anni Novanta alla guida del Bologna di Roberto Baggio. Qualche anno dopo, la sua strada e quella di Shatila si incroceranno.
Concepito nel 1949 per ospitare tremila persone in fuga dalla Palestina, Shatila occupa ancora lo stesso spazio di allora, meno di un chilometro quadrato, nonostante l’enorme incremento della popolazione. Tra queste mura il sovraffollamento, la povertà e le pessime condizioni igieniche rappresentano delle vere piaghe, a ricordare che non basta l’assenza di guerra per costruire la pace. Eppure, per quanto sembri difficile da credere, le condizioni di vita nel campo di Shatila sono ulteriormente peggiorate con l’arrivo di migliaia di rifugiati dalla Siria.
Nonostante sia un nome scolpito nella mente di molti, anche fuori dai confini libanesi, nessuno sa esattamente quante persone vivano qui: in un comunicato del 2015 della federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa si parla di una popolazione cresciuta dalle 10.000 persone prima della crisi siriana fino alle 16.000 attuali, ma secondo le persone che vivono e lavorano nel campo, i numeri sono molto diversi.
Abu Moujahed, abitante di Shatila da molti anni e direttore del Cyc, Children and Youth Centre, una Ong che fornisce educazione e attività ricreative per i bambini e ragazzi dai 6 ai 18 anni, racconta che sicuramente nel campo vivono almeno 22.500 persone, mentre prima del 2011 potevano essere circa 18.000.
L’unico dato ufficiale, fornito dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, non è del tutto attendibile, perché non tiene conto né del gran numero di rifugiati palestinesi che non sono registrati, né dei residenti del campo non palestinesi, come i libanesi ridotti in condizioni di povertà, i siriani, oppure le persone che arrivano qui da ogni luogo del Medio oriente e dell’Asia meridionale.
Una situazione come questa porta con sé problemi di ogni genere: l’acqua disponibile nel campo è salata e non adatta al consumo umano, e mentre i fasci di cavi elettrici aggrovigliati sono appesi sopra le teste di chi cammina nelle strade, i topi corrono tra i loro piedi. La corrente manca per diverse ore al giorno, alimentando un mercato parallelo di costosissimi collegamenti a generatori abusivi.
Per quanto ci si possa inoltrare tra gli stretti vicoli, non si incontrano mai aree verdi, e uno degli pochi spazi aperti è un cortile polveroso appena fuori dal Cyc nel quale dove i bambini giocano a calcio cercando di evitare i numerosi pezzi di ferro arrugginito che lo punteggiano.
«Con l’arrivo di migliaia di persone in più la vita è diventata insostenibile – racconta Abu Moujahed – ma naturalmente non possiamo dire loro di no, perché stanno compiendo lo stesso percorso che noi abbiamo compiuto prima di loro, in fuga dalla morte. Alcuni di loro sono addirittura nostri parenti. Quindi bisogna condividere con loro tutto ciò che abbiamo: dal pane, all’acqua, allo spazio».
Il campo cresce giorno dopo giorno per accogliere i nuovi arrivati e chi sta arrivando, ma visto che Shatila non si può espandere verso l’esterno, i residenti sono costretti a costruire in verticale. È normale vedere cinque piani uno sopra l’altro, incollati sopra a quella che una volta doveva essere stata una casa di un piano solo. E con ognuno di questi livelli aggiuntivi i piani diventano un po’ più grandi, e quindi spesso palazzi che a terra distano un paio di metri si toccano quando si raggiunge la cima.
In questo quadrato fatto di caos, del tutto oscuro dall’esterno e su cui i pregiudizi abbondano, ogni palazzo sottrae luce a quello vicino, ogni cavo sembra essere messo lì apposta per aggiungere confusione e finisce per creare dei tunnel, stretti e bassi, sui quali costruire ancora una stanza, una terrazza, un angolo che permetta di fare spazio a nuove persone in uno tra i luoghi più densamente abitati al mondo.
Da alcune generazioni, ormai, i ragazzi palestinesi che vivono in Libano, nati e cresciuti nei campi, soffrono di una mancanza di prospettive che segna il loro equilibrio psicologico e i loro comportamenti. Tutte le organizzazioni che lavorano nei campi rilevano problemi molto simili tra loro: i bambini e i giovani tra i 6 e i 18 anni, nel campo di Shatila e non solo, abbandonano la scuola sempre prima e soffrono di depressione e apatia, disagi psicologici che non dovrebbero esistere a quell’età. Situazioni di squilibrio come queste portano in una sola direzione: i bambini e i giovani assumono atteggiamenti violenti sia per risolvere i loro problemi e conflitti quotidiani, sia semplicemente per emulare i loro modelli in famiglia, portando poi questo modello nelle scuole e nei minuscolo vicoli del campo, fino a tradurlo in una fisicità incontrollata e priva di regole, che gli operatori hanno ritrovato anche nei giochi quotidiani dei bambini e dei giovani per le strade.
Con questi presupposti, e con una carenza cronica di scuole adeguati, di cure mediche, di cibo sano e di spazi protetti, non è difficile essere condotti per mano verso una delle uniche soluzioni possibili, quella della protezione offerta da gruppi militanti estremisti, padroni di ampie parti dei campi nel silenzio generale.
Appena fuori da Shatila, così vicino da non accorgersi neppure di essere usciti, si trova invece un rettangolo verde, sul quale rotola una sfera, bianca o colorata a seconda delle mode: la geometria del calcio è semplice quanto quella apparente di Shatila, ma porta con sé, in questi luoghi, gesti e messaggi completamente differenti.
Lo sport, infatti, è in tutto il mondo uno tra gli eventi di massa più prestigiosi, perché riesce ad attraversare le classi sociali e le fasce d’età con una forza senza pari, e grazie a questa dimensione è uno strumento essenziale di integrazione sociale e di educazione alla pace.
In luoghi come Shatila, nei quali perdere la rotta è davvero facile e per alcuni sembra l’unica opzione, la possibilità di giocare è una chiave per il futuro.
Farshid Nourai, iraniano di nascita ma in Italia da moltissimi anni, è il coordinatore nazionale dell’Associazione per la Pace, un’organizzazione italiana che dalla fine degli anni Ottanta lavora, in Italia e all’estero, per promuovere un’idea di futuro fondata sulla cooperazione tra i popoli.
È sua l’idea di ragionare su spazi diversi e una fruizione differente, sul bisogno per i bambini del campo di poter sfogare in qualche modo le frustrazioni fisiche.
Insieme ad Abu Moujahed e al centro che coordina, il Cyc, Assopace ha dato vita al progetto “Sport in Shatila”, che nasce proprio con l’intenzione di rendere esplicito il valore educativo dello sport e permettere a tutti di riscoprire il valore del gioco.
«Lo sport – spiega Farshid Nourai – educa se viene proposto e organizzato con intenzionalità educativa, secondo parametri e progetti che privilegiano l’educazione del singolo, le regole che ogni disciplina sportiva racchiude, rappresentano la possibilità, per ogni giovane, di evitare la vita della “strada”, soprattutto nelle periferie delle grandi città».
Sport in Shatila ha deciso di utilizzare un linguaggio semplice e universale come quello del calcio per veicolare contenuti complessi, come quelli della collaborazione, dello stare con gli altri per confrontarsi e seguire regole che insegnano all’individuo, come parte di un gruppo, come inserirsi e identificarsi nel proprio gruppo di appartenenza, senza che questo sia una barriera, ma si trasformi in un punto di forza.
Un successo che, osservato con gli occhi di chi lo vede ormai avviato e riconosciuto si potrebbe definire come “scontato”, ma che, come tutti i progetti, rischiava di arenarsi di fronte alle prime difficoltà, o magari essere percepito in modo negativo dalla popolazione. Invece, è stato proprio l’entusiasmo con cui è stato accolto a permettere a Sport in Shatila di crescere e ottenere riconoscimenti di portata sempre più ampia.
Ma i bambini e i ragazzi che si avvicinano per la prima volta allo sport come strumento di formazione personale e come un’opportunità per scoprire rapporti diversi non possono farcela da soli, ed è per questo che dal 2013 “Sport in Shatila” ha deciso di crescere ancora, creando il primo corso professionale per allenatori palestinesi all’interno dei campi.
Tutto questo è stato possibile grazie anche al sostegno da parte dei fondi dell’Otto per mille della Chiesa Valdese, che dal 2014 ha cominciato a finanziare il progetto, garantendo una forza economica diversa rispetto a quella fondata interamente sulla buona volontà di operatori locali e internazionali.
Come per i progetti musicali sostenuti dall’Otto per mille valdese nel sud del Libano, anche in questo caso un’obiezione è sempre dietro l’angolo, quella secondo cui i problemi reali di chi vive nei campi profughi sono di ben altro livello rispetto all’impossibilità di praticare uno sport, ma anche in questo caso si tratta di una critica debole, perché dietro a quello sguardo si nasconde la volontà di appiattire e semplificare un insieme di criticità che abbracciano invece ogni aspetto della vita di chi, dentro a un campo profughi, si ritrova a vivere senza alternative.
Il progetto, entrato nel suo sesto anno, non risolve da solo le numerose difficoltà che gli abitanti di Shatila si trovano a dover affrontare ogni giorno, e che superano le capacità di intervento delle organizzazioni che provano a portare il loro contributo in diversi ambiti. Eppure, l’attività ha delle evidenti ricadute positive su bambini e ragazzi, che giorno dopo giorno riscoprono il valore dello stare insieme condividendo un sistema di regole e di valori che la vita nei piccoli vicoli del campo non può offrire in alcun modo. Proprio per questo, il progetto “Sport in Shatila” non si ferma, e di anno in anno punta a crescere sempre di più, oltre le barriere fisiche e mentali che si nascondono tra le strette vie e i pochi spazi aperti di questo quadrato così complicato.
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