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Disegnare
il futuro
La storia della formazione primaria nei campi profughi palestinesi a Beirut, in Libano
BEIRUT
LIBANO
Quando ci si muove tra le strade di Beirut, è impossibile non notare quanto ogni quartiere rappresenti una città nella città, con i suoi accessi, la sua struttura urbanistica e architettonica, i suoi negozi e i suoi colori caratteristici. All’interno di queste città nella città c’è un altro livello, più grande e più piccolo insieme, una costellazione di minuscoli Paesi di uno stato polverizzato, la Palestina. Queste minuscole repubbliche sono i campi profughi palestinesi, luoghi nei quali le contraddizioni del Libano emergono con una forza che fuori dalle strette vie e dagli incroci di innumerevoli cavi è difficile da scorgere.
Mentre da un lato è sbagliato pensare ai campi come entità omogenee, dall’altro molti problemi sono comuni e organici a una storia che ha portato qui persone, vicende e relazioni che hanno segnato tutta la seconda metà del Novecento e l’inizio di questo secolo.
Mar Elias, situato nella zona sudoccidentale di Beirut, è il più piccolo tra i campi profughi del Libano. Il suo nome, traducibile grossolanamente come “Sant’Elia”, è un segno della sua origine: è stato infatti fondato nel 1952 dal convento greco ortodosso di Mar Elias per accogliere i profughi palestinesi provenienti dalla Galilea. Oggi ospita poco più di 650 rifugiati registrati, anche se con la crisi siriana del 2011 si ritiene che gli abitanti del campo siano più vicini ai mille.
Quasi all’estremo opposto, non per geografia ma per storia e dimensioni, si trova il campo di Burj Barajneh, che con i suoi 17.900 rifugiati ufficialmente registrati è uno dei campi profughi palestinesi più densamente popolati, non solo in Libano. I motorini, che sono gli unici mezzi in grado di muoversi tra le strettissime vie, i cavi e la quasi totale assenza di luce tra le costruzioni strette e alte che lo compongono sono lì a ricordare a tutti, a ogni passo, la durezza delle condizioni di vita di uno tra i campi simbolo della diaspora palestinese, pensato e delimitato per la metà degli attuali abitanti. Si trova nella periferia meridionale di Beirut, a due passi dall’aeroporto internazionale, in una zona storicamente controllata dalle milizie sciite di Hezbollah, ed è stato fondato nel 1948 dall’allora Lega delle Società della Croce Rossa per accogliere i profughi fuggiti dalla Galilea, nel nord della Palestina.
Nella loro tormentata storia, i campi di Mar Elias e di Burj El Barajneh sono accomunati non soltanto dalla provenienza geografica dei primi profughi, arrivati dalla Galilea per cercare riparo dopo la fondazione dello stato di Israele, ma anche da problemi simili. Ancora oggi i palestinesi nei campi libanesi, presenti sul territorio da poco meno di 70 anni, hanno un accesso accesso al sistema scolastico pubblico molto limitato, mentre il costo dell’istruzione privata non è sostenibile dalla maggior parte delle famiglie. L’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, offre percorsi d’istruzione primaria e secondaria all’interno dei campi profughi, mentre le associazioni no-profit locali forniscono servizi sociali ed educativi di fondamentale importanza per sopperire alle carenze del sistema formale.
In una situazione come questa, i bambini sono la parte della società maggiormente esposta a ogni rischio, ma rappresentano anche il maggiore elemento di prospettiva e di speranza nel cambiamento. In particolare, nella società palestinese l’istruzione viene vissuta come un forte elemento di riscatto sociale, come un’occasione per uscire dalle gabbie nelle quali si è stati confinati come popolo a partire dal 1948.
Inoltre, un’indagine socio-economica realizzata nel 2010 da Unrwa sullo stato di povertà dei Palestinesi in Libano ha evidenziato come il sostegno all’istruzione rappresenti uno degli strumenti più efficaci di alleviamento alla marginalizzazione sociale e alla condizione di estrema povertà protratta tra le generazioni.
L’idea di scommettere sull’istruzione e sul fornire strumenti ai bambini più piccoli, ma non solo, è stata anche quella che ha mosso, ormai più di 40 anni fa, Anni Høver Kanafani, una donna minuta ma con una grande forza.
Anni è la moglie di Ghassan Kanafani, scrittore, giornalista e attivista palestinese, particolarmente impegnato per la causa del suo popolo, scomparso nel 1972 a seguito di un attentato in cui perse la vita insieme ad una sua nipote sedicenne. Dopo l’attentato, che i palestinsesi chiamano “martirio”, Anni decise di rimanere a Beirut, fondando la Ghassan Kanafani Cultural Foundation, per portare avanti un’opera che non è solo memoria e testimonianza, ma che punta a omaggiare la figura di Ghassan cercando di dare anche ad altri la possibilità di diventare uomini e donne di cultura, in grado di superare la tradizionale condizione di marginalizzazione dei palestinesi, uomini e donne che un domani potranno vivere una vita piena.
Il problema è che nel 1974, quando Anni decise di impegnarsi come insegnante nel mondo della formazione primaria, esisteva soltanto un asilo per i palestinesi in Libano, uno solo per decine di migliaia di bambini.
Non tutto, però, va per il verso giusto, perché l’anno dopo il Libano, fino ad allora risparmiato dai conflitti che incendiano in Medio oriente, diventa il teatro di una serie di conflitti dai quali non si riprenderà mai del tutto. Nonostante questo, Anni e le altre insegnanti, grazie al supporto della popolazione locale e di varie organizzazioni internazionali, in questo periodo soprattutto scandinave, continuano la loro opera, e tra il 1975 e il 1981 nascono altre cinque scuole materne, a nord e a sud di Beirut oltre che nella capitale. Ultimo nato, in questa fase, è proprio il campo di Mar Elias.
La guerra non accenna a spegnersi, e nel 1982 sia il primo centro aperto sia l’ultimo sono costretti a chiudere a causa dell’intervento militare israeliano. L’asilo di Mar Elias riaprirà soltanto un anno dopo, in seguito a profondi lavori di riabilitazione, mentre quello di Burj El Barajneh sarà costretto a spostarsi, impegnando insegnanti, personale e volontari nella complessa sfida di salvare gli arredi e le attrezzature per non disperdere tutto il lavoro svolto negli anni precedenti.
Il conflitto in Libano porta con sé difficoltà sempre più grandi, ma anche un’attenzione inedita sui campi palestinesi. È in questo contesto che nel 1986 la Ghassan Kanafani Cultural Foundation prova a spingersi oltre, avviando due centri per bambini con bisogni speciali, uno ad Ein el-Hillweh e uno proprio a Mar Elias, grazie al supporto della sezione svedese di Save The Children.
Con l’arrivo degli anni Novanta la guerra civile finisce e la storia diventa cronaca. Nel 1991, dopo 15 anni di conflitto, il Libano sta cercando di rialzare la testa, e la cooperazione internazionale è la benvenuta, nonostante siano ancora frequenti i momenti di tensione e le violenze in tutto il paese. Tra i primi ad arrivare c’è la leccese Ctm, Cooperazione nei Territori del Mondo, che comincia subito a occuparsi di vari aspetti della ricostruzione sociale di un paese profondamente segnato.
Intanto, nei campi palestinesi anche la Ghassan Kanafani Cultural Foundation torna a lavorare guardando al futuro dopo le tragedie della guerra, ed è in questa fase che prende forma il modello pedagogico attraverso il quale Anni e le altre insegnanti otterranno risultati sempre più importanti nel campo dell’educazione primaria.
In questi anni difficili ma ricchi di sfide vinte, i centri aperti dalla Ghassan Kanafani Cultural Foundation hanno continuato a crescere, e ora le sei scuole materne e i due centri per bambini gestiti dalla fondazione, tutti situati all’interno di campi profughi palestinesi o nelle immediate vicinanze, danno supporto a circa 700 bambini e bambine ogni giorno, mentre i circoli, centri d’arte e biblioteche per ragazzi hanno una capacità di circa 700 bambini e ragazzi di età compresa tra i 6 e i 18 anni.
Numeri importanti, perché ogni persona porta con sé una storia, una relazione, una vita che grazie alla formazione può guardare al futuro con più fiducia, eppure il lavoro non è mai completo, né può esserlo. Proprio per questo nel 2007 le strade della Ghassan Kanafani Cultural Foundation e di Ctm si incrociano per ampliare e potenziare ancora l’offerta di servizi per minori nei campi palestinesi.
Una delle sfide senza fine è proprio quella di ritagliarsi ogni volta un pezzetto di spazio per migliorare i propri servizi, per crescere e diventare grandi tutti insieme.
Costruire un nuovo piano di un palazzo a Mar Elias e Burj El Barajneh non è soltanto un fatto urbanistico: significa avere uno spazio nel quale poter vedere il cielo senza che siano soltanto dei cavi ad attraversarlo, poter osservare gli uccelli volare senza doversi limitare a immaginarne le traiettorie, e il progetto W la scuola, finanziato dall’Otto per mille valdese e realizzato sul campo da Ctm, punta proprio a questo.
Da molti anni le attività della Ghassan Kanafani Cultural Foundation si distinguono per il modo in cui si guarda all’educazione, avendo adottato la metodologia dell’Early Childhood Development and Education (ECDE), basata su un approccio olistico che utilizza una combinazione di diverse attività pensate per i bambini, per i giovani e per i soggetti affetti da disabilità, e che considera tutti gli aspetti di sviluppo e di crescita incoraggiando l’espressione creativa.
Il bambino viene inserito in un percorso che non solo lo accompagna, ma lo colloca al centro di un sistema nel quale ogni tappa dello sviluppo viene messa in discussione e riformata in base ai bisogno individuali. In luoghi come i campi profughi, nei quali spesso, per storia e per dimensione, il numero rischia di venire prima della persona e della storia, si tratta di un gesto decisivo.
Quando si lavora nei campi, e in generale in luoghi di segregazione, il rischio di ripiegarsi su se stessi è grande. Tuttavia, i risultati del lavoro educativo della Ghassan Kanafani Cultural Foundation non rimane chiuso tra le mura: ogni anno la fondazione organizza delle esibizioni dei lavori realizzati dai bambini e dalle bambine, presentate prima nei campi e poi diffuse in altri luoghi: alcune di queste mostre sono arrivate anche nelle scuole della Danimarca e non solo.
«È un modo per tenere alta l’attenzione sui bambini palestinesi anche fuori dai campi. Oltretutto – racconta Anni – quando organizziamo le mostre molte persone che vivono fuori dai campi vengono a trovarci e portano con loro i bambini. È un grande segno di apprezzamento per il nostro lavoro».
Una sfida molto complessa di fronte a cui si è trovata Anni è legata al passare del tempo. Quando un bambino completa il suo percorso in uno degli asili gestiti dalla Ghassan Kanafani Cultural Foundation, arriva il momento di andare in una delle scuole dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si dedica ai palestinesi. Come fare per mantenere vivo l’approccio, la mentalità, di questi bambini pur non potendo proseguire lo stesso percorso?
Questa frase così categorica diventa vera ogni volta che qualche avvenimento tocca il Medio oriente, e diventa innegabile quando alla già complessa situazione seguita alla guerra con Israele del 2006, dalla quale il Libano non si è mai ripreso del tutto, si somma la crisi dei profughi in fuga dal conflitto siriano. Come raccontato in un reportage del 2014, c’è una particolare categoria di rifugiati giunta nel “paese dei cedri” dal 2011 a oggi, quella dei profughi palestinesi che vivevano nei campi siriani e li hanno dovuti abbandonare per cercare maggiore sicurezza al di là delle montagne che delimitano la valle della Bekaa, confine tra Beirut e Damasco.
Le necessità di due comunità eterogenee ma con radici comuni non sono la semplice somma di due insiemi umani, ma una sfida che richiede forza, dedizione e sensibilità. Bisogna prendersi cura dei “nuovi ultimi” senza dimenticare quelli di prima.
Negli anni, la storia dei centri della Ghassan Kanafani Cultural Foundation ha superato ogni genere di difficoltà, raccolto sfide sempre più ampie ed è riuscita a proporsi come punto di riferimento per le famiglie che vivono nei campi palestinesi, svolgendo un lavoro di integrazione, dentro e fuori la comunità di riferimento, che ha portato oltre 8.500 bambini e bambine a un livello di istruzione sempre più alto. Molti di questi hanno poi avuto accesso alle scuole, anche fuori dai campi, e alcuni di loro sono stati i primi palestinesi della diaspora a raggiungere l’accesso all’Università. Altri, invece, sono diventati insegnanti, e alcuni di loro l’hanno fatto ritornando dove la loro storia è cominciata: negli asili della Ghassan Kanafani Cultural Foundation, perché la storia deve continuare, e la speranza di un futuro migliore passa attraverso gli occhi, e le mani, dei bambini.
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