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Il bello di un paesaggio
sono le persone
Il progetto Humus a Morigerati
MORIGERATI
ITALIA
Uomini e territorio sono inevitabilmente legati. I problemi di uno si trasmettono all’altro e le virtù che entrambi possono scatenare sono capaci di innescare percorsi di crescita.
Nessuno si può vantare di aver fatto crescere un pomodoro o l’insalata, perché il miracolo del seme che dalla terra cresce e dà nutrimento è quanto di più naturale e accessibile esista. C’è bisogno di cibo per vivere; c’è bisogno della terra. Ogni territorio ha perpetrato questo miracolo secondo i suoi ritmi, saperi e tradizioni finché la modernità ha cominciato a imporre nuovi tempi; l‘uomo si è distaccato dalla terra e si è ammalato, la terra è diventata sinonimo di arretratezza e ignoranza.
Se il suolo lasciato a se stesso è in grado di rigenerarsi, produrre humus e ritrovare le componenti che renderanno possibile la vita, per l’uomo il riavvicinamento alla ciclicità naturale permette di innescare un processo di guarigione che passa attraverso il contatto con la terra, il lavoro e la fatica, per osservare infine il miracolo della vita che si rinnova.
Il progetto Humus mira a questo.
Per chi fa agricoltura, ricreare quello che fa la natura, con la sua capacità di rigenerarsi e di muoversi, è un’ambizione. Ma humus può avere anche altri significati.
Fare politiche sociali in ambito agricolo è possibile: bisogna cambiare approccio e far sì che dall’assistenza si passi all’inclusione. Un modo per farlo è dare degli strumenti etici e motivazionali affinché le persone che si trovano in uno stato di necessità possano cominciare a investire su se stesse, a sfruttare le proprie energie e ambizioni partendo dalle attitudini e capacità personali. È importante trasmettere qualcosa che va al di là della pratica agricola e fare della fatica un mezzo di riscatto.
La dipendenza è inevitabilmente alimentata dall’assenza di prospettive e di lavoro, e di conseguenza anche dalle privazioni economiche; il SerT, a cui molti fanno riferimento, non riesce a soddisfare tutte le richieste di intermediazione degli utenti che chiedono l’accesso a un lavoro o ad aiuti economici.
La terra è lavoro. Un lavoro che rompe gli schemi di chi è abituato a relativizzare tutto col cervello: si fa con la pratica e la sedimentazione dell’esperienza. È un percorso molto lento, che non parte dalla teoria ma dal movimento, soprattutto per una generazione che si caratterizza per gli aspetti cerebrali. Per questo riappropriarsi degli aspetti pratici della vita è una dimensione fondamentale: riuscire a fare qualcosa con le mani ha a che vedere con nuove attitudini che permettono di riappropriarsi delle cose attraverso il contatto fisico, per fare esperienza allo stato puro. Riuscire a fare ti ricorda dove sei, cosa stai facendo e non cosa ti manca.
Per chi sceglie di dedicare il nome della propria attività a un concetto come la resilienza, tornare alla terra significa farlo con una differenza sostanziale rispetto alla generazione precedente. Per i nonni, che la terra la lavoravano come subalterni e braccianti, si trattava di una condizione di reclusione e costrizione. Per chi ci si avvicina adesso è un ritorno che si carica di altri significati: si affronta il conflitto tra ciò che si dovrebbe essere e ciò che si vorrebbe fare. Si tratta di assumersi delle responsabilità, non solo verso il territorio ma anche verso chi lo abita.
L’agricoltura è stata per lungo tempo relegata ai margini: chi non aveva avuto fortuna, non era emigrato o non aveva trovato un’attività al passo con i tempi veniva visto con commiserazione. Rimane ancora chi guarda a questo ritorno con nostalgia o come fosse un fatto di folklore, come se l’agricoltura fosse irrimediabilmente legata al passato, ma sempre di più sono quelli che vedono questo ritorno come il futuro, soprattutto perché di cibo si vive.
Investire energia nella coltivazione degli orti, del grano, la produzione di olio extravergine, avere messo in moto dei meccanismi di recupero delle antiche coltivazioni significa tornare a valorizzare il territorio. Ridare dignità a quello che aveva tenuto in vita le comunità locali mette nella condizione di essere un po’ archeologi e un po’ scienziati, cioè di riscoprire antichi saperi e reintrodurli come basi di crescita. Significa stare nel passato e nel futuro, stare dentro e stare fuori: non eleggere un posto in particolare a centro del mondo, ma riconoscerlo come parte del mondo. E se funziona con la terra funziona anche con gli uomini.
Azione e radicamento in loco significa ridare dignità non solo alla terra e la sua tradizione, ma dare dignità alle persone di qui che hanno trovato delle difficoltà.
Significa dare fiducia.
L’unione fa la forza è esattamente quello che si intende quando si parla di agricoltura sociale, dove la parola “sociale” è superflua, perché l’agricoltura di per sé racchiude già la necessità di unione, condivisione e distribuzione delle responsabilità, ma anche dei frutti del proprio lavoro.
Ma quello della terra è anche un linguaggio universale, come lo è la musica. Per raggiungere quelle orecchie che hanno difficoltà a sentirsi e ritrovarsi, un linguaggio universale è quanto di meglio c’è per fare aprire gli occhi e svegliare dal torpore immobile di decenni, le vittime di politiche assistenziali che hanno dato vita a quella che chiamano cultura del lamento.
La terra cela in sé la possibilità di innovazione, sia come tecniche agricole, culturali, di costruzione di relazioni e reciprocità. È un processo di innovazione che forse sarà lo strumento per far capire a chi oggi guarda queste cose con nostalgia che il futuro parte da qui. Dalla tua terra, da quello che hai a casa o ancora più vicino: da te.
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