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Giordania, Libano
e Siria
Difesa dei diritti, spazi di normalità e rimanere aggrappati al futuro
Lasciando Beirut, e spostandoci sempre più a sud, oltre le contese alture del Golan, terreno di scontro tra Siria ed Israele, incontriamo la Giordania, una monarchia guidata da una famiglia hascemita, coinvolta profondamente nelle vicende politiche della regione. I freddi numeri ci raccontano di una situazione disperata anche in questo paese, schiacciato tra Israele ad ovest, Siria a nord e Iraq a est. Qui la presenza di rifugiati siriani, o di rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria, è di circa un milione di persone su una popolazione totale di 6 milioni. Tuttavia, la Giordania ha attivato negli anni un sistema di campi profughi fortemente strutturato, e che ha un omologo, in termini di dimensioni, soltanto nel vicino Iraq. Ma le somiglianze si fermano qui: a differenza dell’Iraq, in Giordania i campi sono chiusi, e sin dalla loro origine la gestione di queste strutture è sempre stata affidata ad enti legati al radicalismo islamista.
Questa unione tra due repressioni, una spaziale ed una ideologica, porta i campi ad essere facilmente focolai di tensioni che li rendono luoghi impraticabili per moltissimi rifugiati.
Proprio queste logiche conducono al fatto che in realtà circa l’80% della popolazione di rifugiati non si sia rivolta al sistema dei campi per trovare protezione, ma abbia scelto di vivere nelle città, proprio come avviene nel nord del Libano e come ci racconta Domenico Chirico, direttore di Un Ponte Per….
Il fatto che i profughi non si rivolgano ai circuiti ufficiali dell’assistenza è stato in un primo momento tollerato, o addirittura incentivato, per motivi economici, nell’idea che la crisi siriana sarebbe durata alcuni mesi e si sarebbe velocemente conclusa. Ma le cose sono andate diversamente: la situazione si è cronicizzata, e nessuno può prevedere se e quando l’emergenza profughi comincerà a contrarsi.
In questa difficile situazione, complicata da un’estensione territoriale nettamente superiore a quella del Libano, si trova ad operare l’associazione Un ponte per…, che nel 2013, in collaborazione con l’Unione delle Donne Giordane (JWU) ha attivato una serie di progetti specifici rivolti all’assistenza di categorie socialmente deboli all’interno dei flussi migratori nei centri polifunzionali di Irbid, Ramtha, Karak e Kaldiyya.
In particolare, il progetto ha avuto una prima fase centrata sull’accoglienza di donne e bambini in un ambiente protetto, fornendo assistenza psico–sociale oltre legale. Molte donne e molti bambini lamentavano la mancanza di spazi sociali a un anno e mezzo dall’inizio della crisi. I servizi sociali erano percepiti come luoghi in cui ritirare il proprio kit di aiuto e poco più. Le attività di Un ponte per… e dei suoi partner locali hanno invece posto al centro delle attività la predisposizione di spazi sociali in cui ospitare attività ricreative per bambini e di socializzazione per le donne (dalla cucina al ricamo).
Intorno a questo sistema di accoglienza di prossimità si è però rapidamente dovuto sviluppare un circuito più articolato, in grado di far emergere un aspetto che non si credeva inizialmente potesse essere così diffuso: quello della violenza di genere, domestica e non.
È importante evitare che i servizi vengano duplicati, perché in condizioni di scarse risorse ogni spreco può essere fatale, ed è per questo che realtà come Un ponte per… lavorano in rete con le agenzie ONU per creare procedure standard comuni. Su questo piano gli aggiustamenti sono stati moltissimi: «passare da uno standard di 100 persone ad uno di 1000 – racconta Domenico Chirico – richiede strategie molto più articolate».
Ma trovare una strategia, da sola, non basta, e il lavoro di Un ponte per… non conosce momenti di riposo. Le tensioni, in Giordania come in Libano, crescono quotidianamente, e le attività di assistenza diventano ogni giorno più centrali, tanto da meritarsi il riconoscimento formale da parte di Unicef. A partire dall’esperienza svolta sui centri polifunzionali di Irbid, Ramtha, Karak e Kaldiyya, l’agenzia dell’ONU dedicata ai minori ha deciso di scommettere sulle strategie di Un ponte per… e di moltiplicarne l’impatto, sostenendo un nuovo intervento su 14 centri, compresi alcuni campi formali in cui si sono rifugiati i cittadini siriani in fuga.
Come detto poco sopra, gli sforzi sono condivisi con la JWU, l’Unione delle Donne Giordane, che era già impegnata in 10 centri prima di questo riconoscimento, e che si occupa in particolare della violenza di genere, un’area in cui il silenzio è la regola, e la paura il suo codice.
«Ogni persona è una relazione»: è una frase che sentiamo ripetere spesso dagli operatori del settore, e queste relazioni sono andate ben oltre ad ogni possibile previsione: a fronte di un progetto che valutava come un successo l’assistenza a 1250 persone, JWU e Un Ponte Per… hanno fornito supporto psico–sociale e medico–legale ad almeno 7700 persone nei 4 centri di Irbid, Ramtha, Karak e Kaldiyya. In realtà, è probabile che la cifra sia nettamente superiore, perché non è raro che in situazioni che coinvolgono bambini si decida di non registrarli, evitando loro code e stress da loro non sopportabili.
Queste problematiche, naturalmente, non nascono con la guerra in Siria, ma essa ne ha amplificato la portata. I centri in Giordania esistevano da molti anni, prima per i giordani e poi per gli iracheni, e ora per i siriani. Per questo attività come la protezione delle famiglie o per gli incontri protetti, sono aperte anche ai cittadini giordani, o anche ai palestinesi in condizione di bisogno.
Certo, le persone in maggior bisogno rimangono i siriani in questo momento, ed è qui che si concentrano gli interventi. Tuttavia non bisogna mai dimenticare chi ha già vissuto queste laceranti esperienze nei decenni passati: la guerra e la violenza non si cancellano, e tutto ciò che si può fare è cercare di rendere meno amaro quanto vissuto.
Ma è proprio da questi centri che può nascere una speranza per il futuro dell’assistenza nel paese: rappresentano il terzo settore giordano, rimarranno tali anche in futuro, e questi anni duri e senza fine hanno, se non altro, permesso di sviluppare protocolli internazionali per contrastare omertà, solitudine e violenza, fornendo quindi la possibilità di costruire nuove reti sociali. Certo, il rischio che alcune di queste strutture diventino cattedrali nel deserto una volta finita l’emergenza siriana esiste, ma creare piccoli e grandi presìdi di normalità in situazioni che non la conoscono passa anche dalla capacità di assumersi questi rischi, portando fino in fondo sfide che solo così si potranno vincere.
Ecco, i campi profughi libanesi sono un aspetto molto delicato della gestione dell’emergenza siriana: pur avendo accolto, ad oggi, circa 700.000 famiglie rifugiate e pur essendo l’unico paese a non aver ancora chiuso i confini ai profughi, in Libano non esistono campi profughi formalmente istituiti. In seguito all’esperienza vissuta dal paese con i rifugiati palestinesi, la politica governativa è stata quanto mai cauta al riguardo, tentando di evitare qualunque forma di stanzialità dei profughi. Questa decisione, ha portato alla creazione di innumerevoli accampamenti informali, costituiti soprattutto da tende e da stanze o abitazioni occupate, molto spesso condivise da numerose famiglie contemporaneamente.
Vi si potevano trovare spazi dedicati alla fisioterapia e luoghi protetti in cui poter condurre attività di special education. Un percorso lungo, difficile, giocato sul piano materiale e sul piano culturale attraverso l’approccio del “Community Based Rehabilitation“, strategia che coinvolge l’intera comunità nella riabilitazione, in modo partecipato.
Operare in un contesto di quel genere è difficile, soprattutto se le persone con cui lavori sono donne. «Avevano dovuto vincere il problema di poter parlare con il mondo senza il marito come tramite – dice Marco Pasquini – Noi gli abbiamo dato una mano ad organizzarsi come associazione ed è così che è nata ZAM».
La maggior parte di queste donne era di origine palestinese perché tutte originarie della zona intorno a Yarmouk, «però credo che nessuna di loro sia mai andata in Palestina. Diciamo che è considerata un’associazione di donne palestinesi, anche se loro stesse dicono di essere “siriano-palestinesi”».
La situazione nel tempo si evolve ed iniziano ad emergere necessità nuove. «Senza aver parlato con noi avevano deciso di chiamare un loro amico infermiere per fargli visitare ogni tanto i bambini. Avevano capito che il problema era non solo intrattenerli, ma anche dare loro un’opportunità di un sostegno sanitario».
Torniamo nel Governatorato del Nord, dove Oxfam Italia ha deciso di lavorare partendo da un’analisi delle difficoltà e dei bisogni dei rifugiati che vivono al di fuori dei campi formali e informali nei distretti di Zgharta e Bcharreh. Questo studio preliminare, realizzato già nel 2012, aveva permesso a Oxfam Italia di individuare tre principali difficoltà:
Sulla base di quest’analisi, Oxfam ha deciso di concentrarsi su attività suddivise secondo tre componenti principali.
Il primo e più urgente ambito d’intervento riguarda la necessità di alleviare le situazioni di emergenza quotidiana, ovvero permettere ai profughi di poter soddisfare alcuni bisogni primari senza cui non ci potrebbe essere vita. Si tratta degli aiuti di emergenza, sotto forma di grant e voucher, cioè – letteralmente – “finanziamenti” e “buoni”.
Questi interventi prevedono la distribuzione di piccole somme utili per poter pagare un affitto o poter effettuare acquisti nel mercato locale (principalmente vestiti). Questo, oltre a sostenere la microeconomia locale, permette di evitare la degenerazione di situazioni ai limiti e – quindi – di mantenere un livello accettabile di dignità nella vita dei profughi. La necessità di operare una scelta tra chi ha diritto e chi no ad ottenere le prestazioni è un ambito particolarmente delicato, perché affonda direttamente nella vita di persone che vivono un’esperienza estrema. Si tratta quindi di stabilire dei “criteri di vulnerabilità” per poter classificare le differenti situazioni e Oxfam ha deciso di basarsi sul VASyR (Vulnerability Assessment per i rifugiati siriani) attualmente condotto da WFP, UNHCR e UNICEF.
Il secondo livello di intervento riguarda la protezione dei profughi e l’opera di riduzione delle tensioni tra comunità ospitante e rifugiati. Un’attività complessa, condotta a livello locale e che si svolge innanzitutto tramite la costituzione di comitati di base in grado di fornire informazioni relative alla registrazione, ai diritti dei rifugiati, all’accesso all’assistenza medica, all’istruzione per i bambini, alla consulenza legale. D’altro canto, l’azione dei comitati di base è improntata alla riduzione delle tensioni con la comunità ospitante. Si può solo infatti tentare di immaginare cosa voglia dire in un paese come il Libano – recentemente uscito da una guerra civile – l’arrivo di un flusso di popolazione così massiccio e quali tensioni e problemi comporti a livello locale la gestione di questa emergenza. In primo luogo, una competizione diretta per le risorse (che diventano minori e più care) e poi l’aumento dei rischi per la salute pubblica dovuti alla convivenza di molte più persone in situazioni complesse.
Il terzo livello d’intervento è quello che guarda al domani, offrendo la possibilità di un inserimento lavorativo: il cosiddetto cash for work. Attraverso questo progetto d’integrazione, e sempre tramite il lavoro di comitati e la loro connessione con la municipalità, viene costruito un processo partecipativo in grado di stabilire quali siano i lavori ritenuti socialmente utili che possano essere affidati ai rifugiati e ai libanesi poveri. Si tratta principalmente di piccoli servizi per una finalità collettiva, e secondo Oxfam Italia, questa attività ha la ricaduta positiva di “smontare” i pregiudizi che nascono tra chi abita in un luogo che improvvisamente si popola di persone con una matrice religiosa e culturale diversa.
Si tratta quindi di ripensare il concetto stesso di confine promuovendo il suo superamento nell’esperienza quotidiana: anche questo è cercare di ricreare uno spazio di normalità.
Arrivare in Libano significa anche scoprire una dimensione nuova dell’essere profughi: tra le persone maggiormente colpite dal conflitto siriano bisogna sempre ricordare l’oltre mezzo milione di rifugiati palestinesi, che, dopo aver vissuto per decenni nei campi in Siria, soprattutto nei pressi di Damasco, hanno deciso di abbandonare il nuovo orrore che li circondava e cercare riparo in Libano, riavvicinandosi anche alla propria terra d’origine.
Esiste un’agenzia ONU che si occupa nello specifico dei profughi palestinesi, la UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente); un’agenzia cronicamente debole da un punto di vista economico, tanto da non essere riuscita ad impedire che i profughi siriani–palestinesi si aggregassero intorno ai 12 campi palestinesi già esistenti in Libano e creassero nuove realtà informali, con il dramma umanitario che ne consegue. L’urgenza di avere un tetto sopra la testa e quantità dignitose di cibo sono sfide non ancora vinte, ma anzi, con il perdurare dell’emergenza in Siria si amplificano anche in Libano.
Esiste un’agenzia ONU che si occupa nello specifico dei profughi palestinesi, la UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente); un’agenzia cronicamente debole da un punto di vista economico, tanto da non essere riuscita ad impedire che i profughi siriani–palestinesi si aggregassero intorno ai 12 campi palestinesi già esistenti in Libano e creassero nuove realtà informali, con il dramma umanitario che ne consegue. L’urgenza di avere un tetto sopra la testa e quantità dignitose di cibo sono sfide non ancora vinte, ma anzi, con il perdurare dell’emergenza in Siria si amplificano anche in Libano.
A questo si aggiunge un carattere tipico degli accampamenti informali, ovvero la mancanza dei più basilari servizi igienici ed educativi.
Per conoscere fino in fondo questa situazione di tremendo disagio dobbiamo spostarci verso sud per circa 100km, e raggiungere Shatila, un campo nella parte sud di Beirut. Qui sono arrivate oltre 2000 famiglie di profughi palestinesi fuggite dal conflitto siriano (pari a circa 5000 persone), o meglio, queste sono le cifre dei profughi registrati, ma le stime sono nettamente superiori. A questo va aggiunto che il campo di Shatila era già in origine un luogo estremamente sovrappopolato, con oltre 16.000 persone che vivevano in poco più di un kilometro quadrato. L’arrivo dei rifugiati dalla Siria ha fatto esplodere nuovamente una situazione da sempre al limite del sopportabile, portando ogni nucleo famigliare a dover condividere il proprio spazio di vita con almeno altre 2 o 3 famiglie.
In questo luogo ai margini della considerazione umana, il peggio arriva con l’inverno, quando il freddo si fa sentire e l’accesso ai servizi minimi essenziali diventa ancora più urgente. Molto spesso gli adulti decidono di ridurre il numero o la qualità dei propri pasti per poter nutrire i bambini, oppure decidono di tentare una delle strade più disperate: quella dell’accesso al credito informale, prestiti che arrivano da amici, famiglie e conoscenti e che alimentano un meccanismo di usura che permette certamente di nutrirsi e vestirsi, ma che, settimana dopo settimana, distrugge un ulteriore pezzo di futuro.
La scelta è stata quella di lavorare proprio a Shatila, dove la disperazione raggiunge punti superiori all’immaginabile; e di lavorare sull’accesso alle risorse di base (beni alimentari e non alimentari) e sull’assistenza nell’ambito della “winterization”, cioè l’insieme di prodotti e servizi fondamentali per fronteggiare il freddo dell’inverno.
Najdeh, il partner locale di HEKS/EPER, gioca un ruolo fondamentale, garantendo referenze, contatti e addirittura con un “libro dei reclami” per fare in modo che il servizio venga migliorato dai beneficiari stessi.
Inoltre, proprio Najdeh conduce frequentemente delle discussioni con gruppi di beneficiari, per garantire il monitoraggio della distribuzione e di ciò che avviene dopo la distribuzione stessa, coinvolgendo almeno il 10% dei beneficiari totali e verificando con loro il livello di soddisfazione o le problematiche principali.
Dare voce a coloro che voce non hanno potrebbe sembrare marginale di fronte all’emergenza pratica, ma proprio questo meccanismo emergenziale da solo rischia di non bastare: rendere protagonisti i beneficiari, fornire loro margini di espressione e provare, con ogni mezzo, a dare speranza a chi rischia di perderla per la seconda volta.
Vi si potevano trovare spazi dedicati alla fisioterapia e luoghi protetti in cui poter condurre attività di special education. Un percorso lungo, difficile, giocato sul piano materiale e sul piano culturale attraverso l’approccio del “Community Based Rehabilitation“, strategia che coinvolge l’intera comunità nella riabilitazione, in modo partecipato.
Operare in un contesto di quel genere è difficile, soprattutto se le persone con cui lavori sono donne. «Avevano dovuto vincere il problema di poter parlare con il mondo senza il marito come tramite – dice Marco Pasquini – Noi gli abbiamo dato una mano ad organizzarsi come associazione ed è così che è nata ZAM».
La maggior parte di queste donne era di origine palestinese perché tutte originarie della zona intorno a Yarmouk, «però credo che nessuna di loro sia mai andata in Palestina. Diciamo che è considerata un’associazione di donne palestinesi, anche se loro stesse dicono di essere “siriano-palestinesi”».
La situazione nel tempo si evolve ed iniziano ad emergere necessità nuove. «Senza aver parlato con noi avevano deciso di chiamare un loro amico infermiere per fargli visitare ogni tanto i bambini. Avevano capito che il problema era non solo intrattenerli, ma anche dare loro un’opportunità di un sostegno sanitario».
Il centro prima dello scoppio della guerra era in grado di sostenere il percorso riabilitativo di circa 300 bambini portatori di handicap e accompagnare le loro famiglie. Un luogo importante non solo perché offriva un’idea di futuro a dei bambini altrimenti condannati, ma soprattutto perché, attraverso un progetto ampio, coinvolgeva gran parte delle dimensioni della vita delle madri, offrendo loro uno nuovo posto nella famiglia e nella società. Un’occasione per diventare cittadine attive, inserite nei circuiti della produzione e della vendita, producendo un ulteriore beneficio perché una parte dei ricavi delle piccolissime attività commerciali veniva messa a disposizione dell’associazione.
Nel tempo si sono quindi aggiunti servizi importanti come quello infermieristico, fisioterapico e la special education. Il centro prima della guerra aveva raggiunto un livello di visibilità molto alto, tanto che era nato un circuito di fundraising interno alla Siria e molte donne benestanti, ad esempio, avevano deciso di contribuire in base alle loro possibilità.
Le donne – per la maggior parte analfabete e provenienti dalle zone limitrofe al centro – nella struttura di Hajar al Aswad avevano la possibilità di formarsi per poter trovare una collocazione lavorativa, dal piccolo artigianato all’assistenza, stare insieme ad altre donne al di fuori del nucleo familiare e, in sostanza, cercare una diversa identità di sé e un diverso posto nel mondo.
Il fatto stesso che il centro fosse gestito da un’associazione di donne, Zahret el Madaen, che attraverso un lungo percorso di emancipazione ed empowerment erano riuscite a salvare i propri figli donando loro una prospettiva di futuro e restituendosi un ruolo in società, era di per sé un elemento unico.
Nel processo di stabilizzazione della struttura intervenne anche l’Unione Europea che finanziò il primo progetto per sviluppare il processo di fisioterapia. Questo ha permesso di formalizzare un rapporto tra il Ministero della Sanità siriano e la Fondazione Mariani di Milano (che si occupa di neuropsichiatria infantile). «Firmammo un accordo che prevedeva che la Fondazione Mariani formasse fisiatri siriani e fisioterapisti arabi a Milano e inviasse fisiatri e fisioterapiasti sul campo a Damasco. Si creò un bellissimo rapporto tra le due equipe e il beneficio di tutto questo ce l’avevano i bambini».
Il progetto era visto con grande attenzione dal Ministero della Sanità siriana tanto che da questa esperienza sarebbe dovuto nascere il progetto per la fisioterapia nazionale. Ministero e Fondazione avevano iniziato il percorso per l’accesso ai protocolli internazionali, ma nel giugno del 2011 a pochi mesi dall’inizio del conflitto, saltò tutto.
La guerra arriva inesorabile proprio quando le attività sono al loro culmine, segnando indelebilmente un prima ed un dopo. La struttura viene occupata e il quartiere diventa teatro di uno dei più aspri conflitti nel Distretto di Damasco. Impossibile restare. Oggi Yarmouk e Hajar al Aswad sono quartieri occupati, al centro di scontri violenti e colmi di disperati.
Nel mondo iperconnesso, la geografia stessa dei luoghi assume un diverso significato iconografico a seconda di ciò che vi accade. Così, se si prova ad inserire quei nomi su di un motore di ricerca, appare l’orrore quotidiano con cui chi lavora nel centro deve confrontarsi.
Il centro, infatti, nonostante tutto, esiste ancora. Per continuare ad operare l’associazione Zahret el Madaen ha dovuto spostare le proprie attività nel più centrale quartiere di Midan, in un appartamento situato in un condominio, con spazi ridotti e un grande affollamento, come racconta Ragda, la direttrice del centro.
Questo riposizionamento in un luogo più scomodo e piccolo, con l’avvento della guerra, non ha fermato l’afflusso di persone che con l’aggravarsi della crisi hanno portato nuovi bisogni.
Damasco è stato il luogo in cui si è raccolta una parte delle persone che scappavano dal resto del paese, come Aleppo o Homs.
L’utenza è dunque aumentata e le donne oggi passano il 90% del loro tempo alla ricerca di cose elementari, come cibo, vestiti e coperte. Per loro il centro rappresenta dunque un luogo in cui trovare un aiuto, ma anche un’oasi di normalità dove poter chiacchierare, rilassarsi, scambiarsi informazioni. Perché in una guerra la possibilità di vivere un’ora di relax è un lusso che bisogna guadagnarsi.
Un conflitto di queste proporzioni cambia la natura delle prestazioni. Improvvisamente il centro ha dovuto farsi carico di una domanda crescente e di bisogni inediti, sempre più urgenti e difficili da sostenere. Tra questi, la distribuzione di pacchi alimentari.
Ognuno di questi riesce ad integrare (non sostenere completamente) il fabbisogno di una famiglia media per circa 30-40 giorni. La distribuzione alle famiglie avviene in circa 10 giorni per evitare assembramenti e code.
Ogni pacco contiene 4 kg di lenticchie, 3 kg di burghul, tre litri di olio, margarina, salsa di pomodoro, zucchero, riso, crema di sesamo, farina, fagioli, pasta, carne e tè, per un totale di circa 30 kg. Con questa borsa, le donne compiono anche molti km per tornare a casa.
Quell’intervento sanitario che già prima costituiva la scintilla in grado di modificare la vita di interi nuclei familiari – e delle donne in particolare – acquista, nel conflitto, un significato ancora più grande. È l’idea stessa dell’esistenza di un futuro possibile oltre la guerra a muovere le energie in quel piccolo appartamento dei quartiere Midan di Damasco, aperto dalle 7:30 di mattina alle 15:00.
La vita nel centro inizia presto, con una telefonata del guardiano che avvisa tutti e tutte sulla praticabilità delle strade per arrivare fin lì. Subito dopo inizia la suddivisione delle persone nelle varie attività: quelle riabilitative come la fisioterapia in una stanza, quelle ludiche e la special education in un altra. E ancora i corsi di formazione per le donne nel corridoio e la distribuzione dei pacchi in un altro. Questo fino a metà pomeriggio, perché entro le 16 bisogna verificare che le strade siano tutte aperte e che ogni persona possa tornare alla propria casa.
La tipologia di servizi è cambiata: non ci sono più le palestre attrezzate e i giardini in fiore. Ma tra quei materassi usati come paravento per cercare un minimo di riservatezza, dentro quelle piccole stanze affollate, si scorge il seme di qualcosa più grande: “non vogliamo abbandonarvi, non vi dovete abbandonare: dobbiamo resistere ed aspettare perché ci sia un futuro”. Perché nel tempo sospeso di una guerra la cosa più facile – e tragica – che si possa fare è perdere il contatto con l’idea che dopo ci possa essere un futuro.
Emergenza Siria.
Il programma di aiuti dell’Otto per Mille valdese e metodista per la popolazione siriana colpita dal conflitto
Cambiare la società lavorando la terra. Ritmo, terra e dissonanza.
L’attività poliedrica di Terra di Resilienza
Disegnare il futuro.
La storia della formazione primaria nei campi profughi palestinesi a Beirut, in Libano
Con le lenzuola pulite
La gestione di un ospedale in una delle zone più remote dell’Etiopia