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Nelle carceri per
ripartire

Spezzare la spirale, ricomporre un legame

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ETIOPIA

Ci sono luoghi che ogni giorno vengono esposti sotto i riflettori e luoghi immersi nell’ombra, ci sono spazi che rappresentano arene per il dibattito e altri che vengono costantemente sottratti a ogni forma di confronto. Il nostro viaggio parte da una categoria di luoghi vicini a noi, accanto a ogni città del nostro Paese, ma appunto “fuori”, nascosti allo sguardo e al pensiero: le carceri.

Quando parliamo del sistema carcerario l’immagine che, in modo quasi esclusivo, affiora alla mente è quella delle sbarre, degli spazi di costrizione e di ambienti tutti uguali, che vanno dal grigio al verde e che raccontano sempre la stessa storia, quella di una punizione e della sua lenta e ripetitiva espiazione, spesso preludio di un ritorno al crimine e non alla normalità.

Eppure c’è dell’altro, perché dietro quelle sbarre e quelle mura ci sono persone, ci sono storie da raccontare e a cui tendere una mano, perché soltanto un continuo dialogo e una tensione positiva tra interno ed esterno possono fare in modo che la pena serva a qualcosa. Senza questa premessa la pena diventa punizione, la punizione tortura, e l’espiazione una spirale in cui ricadere ad ogni giro tra il “dentro” e il “fuori”.

Rompere la spirale, deformarla fino a renderla una linea, pur se accidentata, dovrebbe essere il vero scopo del sistema carcerario, che però in Italia vive in modo ormai cronico, qualcuno direbbe strutturale, di un’incapacità di ripensare alla propria geometria, che è sia spazio sia obiettivo.

Problemi di spazio, dicevamo, perché nel nostro Paese, nonostante i netti miglioramenti che si sono avuti nel 2014 in seguito alla sentenza Torreggiani, il sovraffollamento carcerario in Italia sfiora le 10.000 unità. È una cifra che rischia di rendere inutile ogni riforma, perché, come raccontava durante il Sinodo 2014 il senatore del Partito Democratico Luigi Manconi, «il sistema penitenziario nel suo complesso è affetto da una febbre da cavallo». La condizione di urgenza che fa da struttura portante del modello carcerario va quindi prima riportata ad una situazione in grado di prevedere margini dovuti alle contingenze e a situazioni imprevedibili, ma per poterlo fare potrebbe essere necessario riportare al centro del dibattito due misure ampiamente impopolari: indulto e amnistia.

Certo, non tutto si spiega con i numeri, freddi e pronti a nascondere verità più profonde e che ci impongono di ragionare su altre dimensioni, come quelle del tempo e della sua qualità, ma un superamento dell’emergenza numerica potrebbe forse aiutare a fare un passo avanti.

Lo stato di salute delle carceri italiane è dunque paragonabile a quello di un malato cronico, nei confronti del quale si cercano soluzioni e terapie. Come nel campo medico, non tutte le strategie funzionano, alcune sembrano contraddirne altre, e l’impressione è che spesso si vada per tentativi.

Secondo Francesco Sciotto, pastore della chiesa metodista di Scicli e di quella valdese di Pachino e coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, c’è un punto chiave, quello dell’accompagnamento. «Se una persona viene accompagnata in uscita, indipendentemente dal fatto di aver passato cinque anni in carcere oppure venti, la possibilità che commetta un atto criminale nei mesi successivi alla detenzione si abbatte in maniera fortissima. Anche soltanto per un discorso utilitaristico, evitare di continuare a trattare la devianza come una cosa che va repressa e basta, converrebbe investire maggiormente in quest’ambito».

Su questo piano si innesta un modello, quello della giustizia riparativa, che prova a ragionare non tanto in termini punitivi, quanto sulla riflessione per cui con un reato si è rotto un legame sociale e la finalità dell’azione giudiziaria debba essere quella di ritessere questo legame. Si tratta di un approccio che prevede di coinvolgere nell’azione di ricostruzione il colpevole, le vittime del reato e tutta la società, che da quel reato ha subito una ferita da rimarginare.

Come si racconta spesso, se per chi ha commesso un reato entrare in carcere è molto, troppo, facile, per chi invece cerca di portare all’interno esperienze e strumenti di supporto il percorso è lungo, lento e accidentato.

Non bisogna però pensare che tutto sia perduto, anzi. Da molti anni l’Otto per mille delle chiese metodiste e valdesi viene investito anche in questo campo, dove vengono seguite numerose strade e si integrano percorsi che nascono in seno alla chiesa e attività che provengono dal mondo delle associazioni, delle cooperative e degli osservatori.

La sfida è ambiziosa, ed è quella di costruire in un luogo in cui non è contemplato, dare una seconda possibilità “fuori” a chi si trova “dentro”.

In una parola, ripartire.

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