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Di pane si vive,
di pane si rinasce

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ALESSANDRIA

Ripartire dalle basi, dunque. Ripartire dal pane, alimento chiave del bacino del Mediterraneo ed elemento di unione tra persone che molto spesso si ritrovano a dividere i pochi metri quadrati di una cella.

Questa storia, come tutte le storie, non nasce già compiuta, bensì parte da lontano, da una terra ricca di risorse ma anche di contraddizioni: come racconta Luciano Cambellotti, vicepresidente della cooperativa sociale Pausa Cafè, che ci accoglie sorridente di fronte al laboratorio di panificazione del carcere di Alessandria, «il progetto voleva legare esperienze di vita, storia e culture diverse in diversi luoghi del mondo».

È proprio l’idea della diversità a rappresentare il filo conduttore di esperienze che si innestano su un sistema, come quello carcerario, che tratteggia per i detenuti e le detenute una lunga sequenza di giornate tutte uguali, trascorse nell’attesa della fine del giorno, di quello successivo e di quello dopo ancora, fino all’esaurimento di una pena. Un sistema in cui si perde di vista il vero scopo del carcere: rieducare e riportare le persone a una vita normale dopo aver saldato, come spesso si legge nelle normative, il loro debito con la giustizia.
Il progetto nasce proprio per ridare al carcere il significato che anche per legge dovrebbe avere: non quello di infliggere pene ulteriori rispetto a quelle già definite per legge, cioè la limitazione della libertà di una persona, ma ridefinire i diritti della persona, che paga una pena che non può, e non deve, diventare una tortura.
La diversità sta nel rompere questo circolo asfissiante e restituire umanità a coloro che, se abbandonati, rischiano di perderla ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Riad, trent’anni appena compiuti, un sorriso e uno sguardo che portano lontano, sottolinea la svolta portata nella sua vita dal pane e dai gesti quotidiani.

La libertà, così rimarcata, Riad l’ha vista crescere sotto i propri occhi. Ormai è un punto di riferimento per i compagni di lavoro, ma il percorso è stato lungo: è stato uno dei primi cinque detenuti ad avvicinarsi al progetto del Pane Libero, ha visto costruire il fulcro del laboratorio, il più grande forno rotante del Piemonte, e grazie ai consigli quotidiani del mastro panettiere Silvio Gozzarino è diventato pienamente indipendente, in grado di coordinare il lavoro, impastare e gestire tutte le fasi più delicate della produzione di un prodotto al tempo stesso così semplice e delicato. Quando uscirà, la sua strada sarà segnata in positivo, come raccontano anche alcuni numeri, freddi e lontani dalle emozioni del laboratorio, ma che non vanno dimenticati.

«All’interno della detenzione – racconta Luciano Cambellotti – dare opportunità alle persone di formarsi, di fare un lavoro e soprattutto un lavoro di alta qualità, dove ci si appassiona a un mestiere, riapre una prospettiva di futuro, e questo è sicuramente positivo per la persona, che può di nuovo sentirsi cittadino a tutti gli effetti, che ha sbagliato, paga una condanna, ma può essere attivo, aiutare la famiglia e fare qualcosa di utile, ma è importante proprio nell’economia della società perché andiamo a prevenire il ritorno alle attività delinquenziali, tanto che i numeri parlano chiaro: in Italia abbiamo recidive che toccano il 70%, proprio perché mancano le opportunità, mentre chi è entrato in percorsi di formazione, di lavoro e di accompagnamento dopo la detenzione, ecco che questa percentuale di recidiva si abbassa sotto il 10%».

DISTANZE DA COLMARE

La storia, dicevamo, parte da molto lontano nello spazio, ma non così lontano nel tempo: era il 2004 quando Marco Ferrero, attuale presidente della cooperativa Pausa Cafè, incontrava una sua vecchia conoscenza, Luciano Cambellotti, e la loro visione poteva cominciare a prendere forma.

Il sogno, ambizioso e complesso come spesso succede, era quello di unire due luoghi separati da chilometri di mare e secoli di sfruttamento, come il Guatemala con le sue comunità indigene che coltivano il caffè e i consumatori italiani, seduti a tavola a gustare il prodotto finito, smarcandosi dai grandi canali industriali che hanno spesso generato disuguaglianza ed esclusione.

Manca un tassello, però: come si arriva alla produzione in carcere? Prima di tutto partendo da un’assenza, quella di produttori disposti a sostenere il progetto e quella di distributori che potessero farsi carico del prodotto, ma anche da un’intuizione: perché non farsi carico anche della produzione, unendo due forme di relazione ai margini del profitto e della visibilità?
Con queste premesse si comincia a produrre caffè al carcere delle Vallette a Torino, un luogo enorme, imponente che, visto dagli occhi di chi il sistema carcerario l’ha concepito, funziona.

DALLA CELLA ALLA TAVOLA, UN PASSO CHE VALE UNA VITA

Una storia di distanze ma anche di passione, quella di Marco e Luciano, che quando si guardano alle spalle vedono i loro sforzi premiati e quando guardano davanti a sé vedono sbocciare nuove opportunità; ma anche quella di Silvio Gozzarino, panettiere da oltre quarant’anni in un piccolo comune in provincia di Cuneo e protagonista di questa scommessa, che passa attraverso il prodotto più semplice che si possa immaginare: il pane. Eppure niente è semplice quando si entra nel mondo invisibile, quello delimitato da mura e sbarre, e poi mura e sbarre ancora. Quando si entra nel carcere di Alessandria, nel 2012, non si tratta soltanto di produrre pane, ma di costruire relazioni, farle lievitare proprio come quel pane, croccante fuori e morbido dentro, come quegli uomini segnati da altre storie, fatte di dolore, di scelte sbagliate, ma anche da una grande voglia di ricominciare, di ripartire da zero con nuove motivazioni e una nuova forza.

Il pane è un simbolo, è vero, ma è anche un prodotto e una grande tradizione, che richiede capacità, pazienza e dedizione, caratteristiche e saperi che vanno appresi, coltivati e rinnovati giorno dopo giorno, proprio come il pane e le relazioni. Per riuscire a portare avanti una simile sfida non basta la buona volontà, ma ci vogliono capacità e passione.

«È stata un’esperienza per me molto positiva e molto interessante perché ho avuto occasione di incontrare delle persone che mi stanno dando molto a livello umano. Io riesco a trasmettere a loro la mia esperienza e ne sono molto soddisfatto perché mi sento seguito e i vedo apprezzato nelle cose che faccio, nelle cose che facciamo».

Come per ogni panettiere nel “mondo di fuori”, la giornata comincia presto, e si comincia a impastare: lievito, acqua, farina. Non serve altro per produrre un pane di grande qualità e in grado di rimanere buono per giorni e giorni.

Come lo lievito madre, che va sempre tenuto vivo e in funzione, anche la vita delle persone merita lo stesso trattamento.

FUORI

Uscendo dal laboratorio incontriamo Manuela Allegra, la coordinatrice dell’area educativa del carcere di Alessandria, che segue proprio il progetto di Pausa Cafè e i detenuti che lavorano all’esterno, in quello che viene chiamato molto sinteticamente “lavoro in articolo 21”. «È un lavoro che mi piace, – ci racconta – mi appassiona, mi piace ogni giorno di più perché incontro storie di vita, persone diverse a cui non solo dò io qualcosa ma che trasmettono qualcosa a me. Nel bene e nel male qui passano diverse storie di vita, passa la vita sotto tante sfaccettature diverse».

Già, il “dopo”. Molto spesso ci si dimentica della necessità di ragionare in prospettiva, tenendo fede a quello che dovrebbe essere il primo compito del carcere, quello di formare cittadini migliori. Eppure è proprio questo uno degli elementi che permettono ai ragazzi che lavorano qui di stringere i denti, di appassionarsi a ogni progetto e a ogni iniziativa in grado di fornire degli strumenti per affrontare la vita che si otterranno di nuovo una volta usciti, una volta raggiunto per la seconda volta il “mondo di fuori”.

Naturalmente, le sfide non finiscono qui: se da un lato possiamo parlare sicuramente di un successo, dall’altra i numeri, sia per le persone coinvolte che per la produzione, dovranno crescere ancora.

L’ultima svolta arriva all’inizio del 2015, quando il nostro telefono squilla e Marco Ferrero, con evidente emozione, ci racconta che la produzione del “Pane libero” dovrà triplicare, perché in occasione di Expo 2015 a Milano il loro prodotto verrà portato sui banchi e i tavoli di Eataly, uno tra i partner ufficiali dell’evento.

Come piace ripetere ai promotori di Expo, gli occhi del mondo saranno puntati su Milano, e pensare che tra quella moltitudine di persone, odori e prodotti ci sarà anche un pezzo di questa storia rende ancora più forte il profumo di libertà che questo pane porta con sé.

Il futuro, per questi ragazzi e per chi incontrerà opportunità come questa sulla propria strada, in grado di rompere la monotonia di giorni sempre uguali e notti passate senza dormire, è un treno che passa e che non può essere perso, perché porta dritti verso il riscatto personale e sociale. Porta verso un futuro con un profumo diverso, verso una pagina che non è completamente bianca, ma che ha regalato loro un incipit, l’inizio di una nuova storia, tutta da scrivere e da raccontare e nella quale potranno essere, forse per la prima volta, degli applauditi protagonisti.

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